Verso l’eccellenza scacchistica
Talento, allenamento e ambiente

del maestro internazionale Roberto Messa


1) INTRODUZIONE
2) L’ABILITA' DI CALCOLO
3) LA MEMORIA
4) LA CAPACITA' DI VALUTAZIONE
5) LE INFORMAZIONI VERBALI
6) LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE
7) IL "SEGRETO DEI MAESTRI"
8) TALENTO E AMBIENTE
9) MISURARE IL TALENTO
10) TEST
11) INSEGNAMENTO DEGLI SCACCHI



1) INTRODUZIONE

Grande maestro di scacchi si nasce o si diventa? Che peso ha negli scacchi la predisposizione naturale rispetto allo studio e all’allenamento? Che rapporto c’é tra l’intelligenza (ammesso che l’intelligenza si possa definire in modo sufficientemente univoco) e l’abilità scacchistica? Quanto contano la forza di volontà, le motivazioni profonde, la forma fisica, la capacità di concentrazione e i condizionamenti ambientali sul successo scacchistico? Si può prevedere, come viene fatto in altre discipline sportive, se un agonista in erba è sufficientemente dotato per ambire ai traguardi più elevati?
Si tratta di argomenti ancora troppo poco studiati, quasi "rimossi" dalla letteratura scacchistica per motivi che sarebbe forse interessante analizzare. Ciò almeno per quel che riguarda i paesi occidentali, mentre in passato, nei paesi dell’Europa orientale, studi ed esperimenti sono stati sicuramente compiuti, su commissione delle varie federazioni scacchistiche nazionali, ma per ovvi motivi i risultati ed i loro possibili impieghi non sono stati quasi mai divulgati.
In Occidente, invece, sono da segnalare vari studi compiuti sugli scacchi per iniziativa di ambienti universitari di varie discipline (psicologia innanzitutto) di cui in questo articolo cercheremo di offrire una panoramica, in particolare riguardo ad alcuni esperimenti compiuti negli anni Settanta e Ottanta.
Bisogna premettere che le teorie sugli scacchi formulate dagli psicologi sono molto distanti - per metodo, approccio e finalità - dalle classiche teorie di gioco riportate dai manuali, anche se in qualche caso ne confermano la validità dei principi. Infatti la pur vastissima letteratura scacchistica mondiale è fondata quasi esclusivamente sulle esperienze torneistiche, sulla capacità didattica e sul "buon senso" dei maestri che nei secoli hanno approfondito le conoscenze tecniche del gioco, non su esperimenti scientifici compiuti sui giocatori o su rigorose analisi statistiche.

2) L’ABILITA' DI CALCOLO

In base ad una delle prime spiegazioni date, l’elevata abilità scacchistica veniva considerata come frutto di una superiore capacità di calcolare rapidamente sequenze di mosse e contromosse e di immagazzinare i prodotti di questo calcolo in una memoria prodigiosa. Dagli studi di Adriaan de Groot, nella metà degli anni Sessanta, è invece emerso che i giocatori più forti e quelli più deboli non differiscono in relazione all’ampiezza e profondità dei loro calcoli di mosse: sia il giocatore esperto che il principiante si limitano a prevedere appena qualche mossa prima di decidere.
Più recentemente qualche studioso ha ripreso in esame questo aspetto del problema, affermando che misurazioni sofisticate consentono di cogliere differenze significative nella capacità di calcolo di giocatori forti e deboli. Ad esempio, N. Charness ha utilizzato un campione di giocatori molto più ampio rispetto a quello di de Groot e una gamma più ampia di test e problemi, giungendo ad affermare che la profondità massima nella ricerca delle mosse si riscontra nei giocatori più forti. Anche Holding e Reynolds hanno trovato una significativa correlazione tra la categoria scacchistica e il numero di mosse viste (previste) in avanti.
C’è chi afferma che l’abilità manifestata da alcuni forti giocatori nel gioco lampo non può essere attribuita alla capacità di calcolo, data la rapidità decisionale richiesta. Scrive il grande maestro inglese Jonathan Levitt nel libro "Il Genio negli Scacchi" (Messaggerie Scacchistiche 1998): "I giocatori deboli spendono più tempo a considerare mosse deboli, mentre i giocatori forti impiegano più tempo a considerare mosse forti. Ciò significa che i forti giocatori differiscono dai giocatori deboli principalmente nella percezione intuitiva, non nella capacità di elaborazione. È un risultato cui si potrebbe quasi arrivare per deduzione, senza esperimenti, osservando la qualità del gioco lampo dei grandi giocatori. Quando è in buona forma, Kasparov è in grado di produrre partite lampo delle quali un grande maestro medio sarebbe orgoglioso anche se la partita fosse durata tutto il pomeriggio."
Altri ribattono che nel gioco veloce il calcolo delle mosse è praticamente inconscio, istantaneo, tuttavia presente.

3) LA MEMORIA

Nel tentativo di indagare ciò che determina l’abilità scacchistica, lo psicologo Adriaan de Groot sottopose giocatori forti e giocatori deboli a numerosi test che richiedevano l’impiego di funzioni cognitive diverse. A suo avviso il compito che meglio differenziava i giocatori di diversa abilità era quello che richiedeva loro di ricordare una posizione sulla scacchiera che era stata mostrata per pochi secondi. I giocatori più forti erano in grado di riprodurre quasi perfettamente la posizione osservata, mentre i giocatori più deboli ricordavano solo parzialmente la posizione.
Questo esperimento è stato effettuato anche da altri studiosi (Charness nel 1976; Chase e Simon, 1973; Frey e Adesman, 1976; Goldin, 1979) con analoghi risultati. In seguito a questi esperimenti, gran parte della successiva ricerca sull’abilità scacchistica si è interessata ai processi di memoria.
Inizialmente si pensò che questa maggiore capacità dei forti scacchisti di ricordare correttamente una posizione vista fosse dovuta o ad una superiore abilità percettiva o ad una più efficace memoria a breve termine. Successivamente, però, queste spiegazioni vennero scartate, poiché si notò che i giocatori forti non mostravano performance migliori dei giocatori deboli nel ricordare posizioni casuali dei pezzi sulla scacchiera o materiale non scacchistico. Questo stava ad indicare che la capacità di ricordare le posizioni sulla scacchiera non dipende dalla pura e semplice memoria, bensì dalla superiore conoscenza del gioco. Si giunse così alla conclusione che ciò che caratterizza il forte giocatore è la sua capacità di accedere rapidamente ad un insieme di modelli scacchistici riconosciuti (Simon ha affermato che un maestro di scacchi ha un repertorio di almeno 50.000 modelli memorizzati). L’abilità scacchistica dipenderebbe dunque dalla qualità e dall’estensione della conoscenza specifica immagazzinata e dalla possibilità di accedervi e di riconoscere modelli. Secondo Chase e Simon l’abilità di un giocatore di scacchi aumenta man mano che i modelli specifici vengono immagazzinati nella memoria a lungo termine.

4) LA CAPACITA' DI VALUTAZIONE

Dopo che de Groot ebbe dimostrato che i giocatori più forti e quelli più deboli non differiscono in relazione all’ampiezza e profondità dei loro calcoli di mosse, venne avanzata un’altra spiegazione. Ciò che distingue giocatori di forza diversa sarebbe la capacità di scelta della mossa migliore: i giocatori forti hanno molte più probabilità di selezionare la mossa migliore rispetto ai giocatori deboli. Secondo questa impostazione, non è tanto determinante il calcolo in avanti delle mosse se poi il valore delle posizioni risultanti non viene valutato correttamente: l’informazione guadagnata attraverso la ricerca in avanti non sarebbe in grado di guidare la scelta della mossa. L’ipotesi, sostenuta da Holding e Pfau, è dunque questa: i giocatori di forza diversa differiscono nella loro capacità valutativa. In parole povere, una ricerca breve conclusa da una valutazione corretta e realistica è una guida più utile per la scelta della mossa rispetto ad una lunga ricerca conclusa da una valutazione scorretta o povera.
Holding e Reynolds hanno inoltre rilevato che gli scacchisti più esperti riescono, oltre che a selezionare più facilmente le mosse buone, anche a fornire valutazioni migliori della forza relativa o del vantaggio del Bianco e del Nero in una posizione data, anche quando si tratta di posizioni casuali in cui non possono essere riconosciuti modelli familiari.

5) LE INFORMAZIONI VERBALI

Come può essere facilmente notato, i fattori di volta in volta chiamati in causa quali determinanti dell’abilità scacchistica sono numerosi e diversi. Un punto sul quale pare esserci accordo è che altri fattori, oltre alla memoria pura e semplice postulata nelle prime indagini, giocano un ruolo importante.
Più recentemente Pfau e Murphy hanno cercato di proporre un modello che spieghi in che modo le varie componenti interagiscono nel determinare l’abilità scacchistica. In questa loro teoria, suffragata da una serie di test, i due autori presentano un nuovo fattore, in precedenza mai esaminato, ovvero la conoscenza verbale degli scacchi (relativa a principi generali delle aperture, aperture specifiche, idee tattiche, strategie del mediogioco, modelli di difesa, finali...). La conoscenza verbale specifica degli scacchi sarebbe molto utile in quanto servirebbe a codificare molti piani e procedure tipici così come a fornire una rete di informazioni scacchistiche che possono essere impiegate nel fare valutazioni delle posizioni durante il processo di ricerca in avanti. Gli autori di questo modello interpretativo non intendono affatto sostenere che l’uso di informazioni verbali, da solo, sia la base dell’abilità scacchistica. Tuttavia essi ritengono che si tratti di uno dei fattori determinanti, non semplicemente di un fattore correlato.
Decisamente contrario a questi tesi è il già citato Jonathan Levitt, che scrive: "Nel senso più stretto della parola ‘verbale’, gli scacchi sono essenzialmente un’attività non verbale" Le parole hanno un ruolo molto limitato nei processi di pensiero scacchistico. Talvolta è possibile formulare a parole a che punto si è nei propri pensieri su una posizione: ciò può essere utile per aiutare a non dimenticare dove si è. Senza riferimento agli scacchi, il matematico irlandese Hamilton paragonava il pensiero alla costruzione di un tunnel: le parole, come travicelli, aiutano a sostenere il progresso già realizzato; lo scavo in sé è non-verbale".

6) LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE

Quale forma di rappresentazione interna delle posizioni sviluppano i giocatori? Non è sicuro che si tratti di una visualizzazione, poiché molti giocatori hanno negato di far uso di immagini visive ed anche Binet giunse a questa conclusione nelle sue indagini sui giocatori di scacchi ciechi. Alcuni giocatori parlano piuttosto di "linee di forza" o di altri costrutti simili, quindi di forme astratte di immaginazione e non di visualizzazioni reali della scacchiera. Qualcuno ha sottolineato che la scelta della mossa può essere certamente effettuata senza l’uso dell’immagine, poiché i computer eseguono questo compito senza alcuna rappresentazione visiva.
Ancora non si sa, insomma, se il giocatore "vede" o "pensa" le mosse successive. Rimane inoltre da capire in che modo interagiscono i diversi fattori (memoria nel riconoscimento di modelli, abilità di valutazione, abilità di calcolo delle mosse, conoscenza verbale). Secondo Pfau e Murphy solo una teoria che tenga simultaneamente conto di tutti i fattori implicati può essere appropriata per cercare di comprendere i complessi meccanismi coinvolti nell’abilità scacchistica umana.

7) IL "SEGRETO DEI MAESTRI"

Mentre alcuni ricercatori si sono occupati degli esperti, per vedere come organizzano la loro conoscenza e come la usano, altri hanno studiato il lungo e talvolta difficile percorso che fa di un principiante un esperto. Hubert Dreyfus e Stuart Dreyfus, due psicologi di Berkeley, hanno esaminato vari processi di apprendimento (come si diventa pilota di linea, come si impara a giocare a scacchi, come si arriva a padroneggiare una lingua straniera): in un loro libro, Mind Over Machine, descrivono i cinque stadi che in tutti i casi si devono attraversare dall’inizio alla padronanza completa della materia.
Un articolo di Robert J. Trotter, apparso su Psicologia Contemporanea di novembre-dicembre 1988, cerca di spiegare come il grande maestro di scacchi, il concertista, il fisico nucleare, ma anche l’olimpionico di nuoto o un abile tassista che conosca palmo a palmo le strade di una metropoli, abbiano tutti qualcosa in comune, dal modo di pensare alla padronanza del proprio campo. I cinque stadi postulati dai Dreyfus, e riportati da Trotter nell’articolo citato, sono: principiante, principiante evoluto, competenza, perizia, maestria.
Allo stadio della maestria (esperti di scacchi, ovvero "maestri", possiamo considerare all’incirca l’1% superiore dei giocatori) si riconosce un certo tipo di posizione sulla scacchiera e intuitivamente si produce una strategia adeguata, calcolando poi razionalmente la mossa più utile per realizzare il piano. Un vero maestro non applica regole, non prende decisioni o risolve problemi: fa quello che gli viene naturale, e quasi sempre la cosa funziona. Quando fallisce, spesso è perché si trova davanti un avversario del suo livello. Per l’esperto che ha raggiunto la maestria, la sua disciplina è diventata a tal punto parte di lui stesso che ormai non ne è consapevole più di quanto lo sia del proprio corpo. Cosí un grande maestro di scacchi è in grado di riconoscere decine di migliaia di posizioni per le quali trova immediatamente la mossa più utile.
Secondo i Dreyfus, i processi mentali di uno scacchista sono in un certo senso identici a quelli di qualunque altro esperto: dal pilota, al chirurgo, all’avvocato, al giocatore di basket.
L’osservazione fondamentale è che il vero esperto, il maestro, non applica regole, non prende decisioni e non si affatica a risolvere problemi: agisce spontaneamente, o, se preferiamo, guidato da quella cosa inafferabile che comunemente chiamiamo intuizione. A questo proposito citiamo ancora Jonathan Levitt che nel libro Il Genio negli Scacchi scrive: "L’intuizione consta di idee non verbali, non formulate, che ‘balzano’ dentro il processo di pensiero a causa dell’esperienza precedente". Levitt a sua volta cita il matematico Poincaré, che scrisse nel 1913: "La pura logica non ci porterebbe ad altro che a formulare tautologie... Con la logica noi dimostriamo, ma è con l’intuizione che scopriamo".
Gerald Abrahams, nel suo libro The Chess Mind (Penguin, 1951), ha descritto la "visione scacchistica" come la "intuizione non forzata di possibilità attraverso l’occhio della mente", Infine, più di cinquant’anni fa, il grande maestro Esteban Canal, riferendosi alla straordinaria naturalezza e rapidità di gioco di Capablanca, scriveva: "Soltanto i maestri mediocri ragionano mentre giocano".

8) TALENTO E AMBIENTE

Le ricerche accademiche citate in precedenza eludono una questione forse marginale dal punto di vista degli studi psicologici, ma centrale per chi si occupa di insegnamento e allenamento in campo scacchistico: per raggiungere l’eccellenza scacchistica, è dunque sufficiente giocare molto e immagazzinare il maggior numero possibile di conoscenze teorico-pratiche, o contano di più la predisposizione naturale, le motivazioni e l’ambiente circostante?
Troviamo una risposta credibile a questo dilemma in un libro di Robert J. Sternberg, Teorie dell’intelligenza, edito Bompiani 1987: "Secondo il mio punto di vista, il motivo per cui, di due persone che giocano molto a scacchi, una può diventare molto esperta e l’altra rimanere a livelli bassi, è che la prima è stata capace di utilizzare le informazioni in modo particolarmente efficace e l’altra no. Le maggiori conoscenze del giocatore esperto sono il risultato, non la causa, della sua bravura, e questa deriva dalla sua capacità di organizzare fruttuosamente l’informazione che ha accumulato in molte e molte ore di gioco".
Lo sviluppo del talento è stato preso in esame da un punto di vista diverso anche dallo psicologo americano David Feldman, che nel volume Quando la natura fa centro. Bambini con talenti eccezionali (Giunti 1991) illustra uno studio longitudinale effettuato su sei bambini prodigio e presenta una teoria che cerca di spiegare il fenomeno. Secondo Feldman lo sviluppo di un bambino prodigio è reso possibile dalla interazione di un insieme di forze che Feldman chiama co-incidenza: "È la convergenza fortuita di inclinazioni individuali altamente specifiche con una specifica ricettività ambientale a consentire l’emergere di un bambino prodigio".
Quali sono questi elementi dalla cui delicata interazione dipendono lo sviluppo e l’espressione del potenziale umano? Innanzitutto è necessario un talento particolare del bambino, un certo corredo biologico, una attitudine verso un ambito di attività. In secondo luogo è indispensabile che il campo di sapere prescelto si trovi in uno stadio particolare del suo sviluppo storico che sia in sintonia con il potenziale del bambino, perché le capacità e i talenti necessari per eccellere in un settore cambiano e si evolvono nel corso del tempo. Feldman, ad esempio, si chiede se Einstein avrebbe portato lo stesso contributo alla fisica se fosse vissuto all’epoca di Galileo.
Un altro elemento fondamentale è l’impegno, la capacità di sforzo, da parte del bambino. Tutti i soggetti descritti da Feldman dedicavano infatti molte ore della giornata all’attività prescelta.
È inoltre indispensabile il riconoscimento del talento eccezionale da parte della famiglia e l’impegno ad alimentarlo, attraverso l’incoraggiamento, la comprensione, l’interesse, la messa a disposizione di validi maestri.
Per finire, occorre una società dominata da una cultura che riconosca e sostenga l’eccellenza in quel particolare ambito di attività e di conoscenza. Lo stesso Feldman sottolinea che gli scacchisti americani ritengono che la mancanza di interesse e di appoggio da parte delle istituzioni ostacoli gli sforzi per dedicarsi al gioco in maniera continuativa. (Ricordiamo che due dei soggetti esaminati da Feldman avevano mostrato un talento specifico per gli scacchi quando erano bambini, ma finirono con l’abbandonare lo studio serio del gioco nell’età dell’adolescenza).
Secondo Feldman, dunque, affinché il potenziale di un bambino prodigio si sviluppi nell’età adulta è indispensabile questa co-incidenza tra un’attitudine innata, un particolare ambito che abbia raggiunto un certo grado di sviluppo, una famiglia sensibile e ricettiva, un’epoca storica culturalmente propizia. È chiaro che questa co-incidenza è un fenomeno che presenta poche probabilità di verificarsi, e ciò spiega perché il raggiungimento dell’eccellenza nell’età adulta sia così raro.
La teoria sostenuta da Feldman si adatta perfettamente a tutto ciò che sappiamo sulle giovani vite di Garry Kasparov, delle sorelle Polgar e di altri scacchisti prodigio: sostegno della famiglia, ambiente favorevole, buoni istruttori, modelli positivi a cui ispirarsi, totale e appassionata dedizione agli scacchi. Contrasta invece, e molto nettamente, con le biografie di altri grandi campioni individualisti come Alekhine, Capablanca e Fischer. Quest’ultimo, più di tutti, è il prototipo dell’uomo che si è fatto da sé, lottando fin dalla prima infanzia in un ambiente ostile e competitivo, e traendo forse proprio dagli ostacoli e dalla durezza della vita la disperata volontà di raggiungere i vertici mondiali.

9) MISURARE IL TALENTO

Jonathan Levitt, nel libro più volte citato in questo articolo, sostiene senza infigimenti la tesi della priorità delle doti soggettive - il cosiddetto talento - arrivando ad ipotizzare, quasi provocatoriamente, una relazione tra punteggio Elo (l’indice di forza di un giocatore di scacchi) e QI (il "famigerato" quoziente intellettivo).
Secondo Levitt il talento è dunque la condizione imprescindibile per raggiungere l’eccellenza scacchistica, ma anch’egli sottolinea l’importanza delle altre componenti che abbiamo già incontrato (ambiente propizio, capacità di applicarsi duramente e per un lungo periodo, forza di volontà) aggiungendo a queste la "motivazione estetica", ovvero l’afflato "artistico" verso gli scacchi, che egli afferma di aver riscontrato chiaramente in tutti i grandi maestri di punta da lui conosciuti.
L’autore inglese riporta inoltre uno dei "test di talento" ideati dal fisiologo ceco Pavel Cerny, che nel 1960 svolse una serie di esperimenti su numerosi giovani scacchisti. Pare che l’esercizio seguente abbia ottenuto un’alta percentuale di successo nel predire i futuri grandi maestri.

10) TEST

Mettere sulla scacchiera un Cavallo bianco in a1 e quattro pedoni neri in c3, f3, c6, f6. Muove solo il Bianco.

Il test sta tutto nel tempo impiegato per effettuare un’intera serie di mosse che conduca il Cavallo bianco a visitare tutte le caselle qui di seguito specificate nell’ordine dato. Nel corso della lunga manovra il Cavallo non deve catturare alcun pedone nero, né porsi mai in presa (attenzione: i pedoni neri muovono verso il basso). Le case da visitare col Cavallo sono, rispettando la sequenza: b1, c1, d1, e1, f1, g1, h1, a2, c2, f2, h2, a3, b3, d3 e così via fino a raggiungere h8. La case visitate per andare, facciamo un esempio, da a1 a b1, non vanno cancellate dalla lista, ma dovranno essere rivisitate al momento appropriato.
Dopo aver svolto l’esercizio fare una breve pausa, quindi ripetere l’intero processo e misurare di nuovo il tempo ottenuto.

La soluzione potrebbe cominciare così: Cc2 - Ca3 - Cb1 - Ca3 - Cc2 - Ca1 - Cb3 - Cc1 - Cd3 - Cf2 - Cd1 - Ce3 - Cc2 - Ce1 - Cc2 - Ce3 - Cf1 - Cg3 - Ch1 - Cf2 ecc.
Indicatori di un giocatore promettente sono sia un buon tempo alla prima prova (tre minuti è classe da grande maestro, cinque minuti un livello da categoria nazionale) sia un netto miglioramento tra la prima e la seconda prova. Una diminuzione del 25% circa sembra indicare una buona capacità di apprendimento.
Nel suo libro Levitt propone tutta una serie di "test di talento", mentre altri dati sugli esperimenti del dr. Cerni sono riportati da Hartston e Wason nel libro The Psychology of Chess (ed. Batsford, 1983).

11) INSEGNAMENTO DEGLI SCACCHI
Due approcci per due diverse finalità


Fin dal livello più elementare dell’insegnamento degli scacchi ci si imbatte in due concezioni tra loro piuttosto distanti.
La prima tende ad esaltare l’aspetto ludico del gioco fin dai primissimi approcci, per rimandare ad un secondo tempo la terminologia e le questioni più tecniche non strettamente indispensabili. Questo metodo é normalmente da privilegiare in ambito scolastico, soprattutto con bambini inferiori ai dieci anni, e in tutte quelle occasioni in cui gli scacchi vengono adoperati come strumento pedagogico, quindi con fini educativi generali piuttosto che "scacchistici" in senso stretto.
La seconda concezione è quella che traspare, per esempio, da molti manuali per ragazzi che erano in uso nelle scuole scacchistiche ex-sovietiche: fin dall’inizio si richiede da parte del giovane allievo una forte motivazione, imponendo l’apprendimento di termini e nozioni tecniche di una certa complessità ancor prima di cominciare a giocare. Questo metodo può avere un impatto "selettivo" dai non trascurabili effetti, sia positivi che negativi: l’allievo sarà portato a mettere alla prova, ben oltre la semplice voglia di giocare, la sua volontà e capacità di migliorarsi significativamente. Chi riuscirà sarà naturalmente spronato verso le fasi successive, ma per gli altri è da mettere in preventivo un alto rischio di caduta di interesse, se non proprio di abbandono.
A un livello tecnico non elementare, per esempio per i corsi di avviamento all’agonismo o per i corsi federali di perfezionamento, quando è richiesta da parte di tutti una forte applicazione e una forte motivazione per il raggiungimento di traguardi personali più elevati, questo secondo approccio appare più in linea con le esigenze di altissima specializzazione tecnica imposte dall’agonismo scacchistico odierno.

 



Autorizzazione del tribunale di Brescia n. 3/2000 del 01/02/2000
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